Arrivare a Belém è stato uno schianto a tutta velocità. Il caldo umido soffocante della città e il gelo sputato dai condizionatori del Val de Cães hanno iniziato a fare a pugni fin dal mio primo istante nella megalopoli, capitale dello stato del Pará. Solite pratiche di disimbarco e sono per strada. Di nuovo al caldo. Carico come un mulo cerco di farmi largo tra la folla accalcata intorno alle uscite. E' una babele di volti, lingue, offerte e richieste. Mi saltano addosso nel vero senso della parola. Tra urla, strilli e spintoni riesco alla fine a montare su un taxi e a lanciarmi verso il porto. La mia corsa si ferma al primo incrocio. Quaranta minuti nel traffico pestilenziale di Belém e arrivo a destinazione. Le trattative con il capitano dell'improbabile chiatta che dovrebbe portarmi fino all'Isola di Marajò si concludono in fretta. In cambio di una buona mancia in euro promette di lasciarmi tre ore più tardi giusto davanti alla fazenda Bom Jesus, non molto distante da Soure.
Mi metto seduto comodo a prua, aggiusto i bagagli dietro la testa e chiudo gli occhi.
Il capitano, arrivati alla fazenda, non esce dal suo gabbiotto nemmeno per salutarmi. Strombazza con chissà quale marchingegno per attirare la mia attenzione e mi indica la fattoria sulla sponda del fiume. Lo saluto. Raccatto le mie cose e sbarco sul pontile.
Immobile. Duro. Forte come un bufalo.
Questo è quello che mi viene in mente andando incontro a Jovêncio e studiando ogni centimetro del suo corpo. Alla fine dei conti mi aspettavo un vecchio fragile e delicato di centodue anni.
Mi abbraccia con una stretta che non dimenticherò mai più. Per un momento mi è sembrato avesse i piedi inchiodati alle assi del molo.
Mi invita ad entrare in casa e, nonostante io stia ancora digerendo malvolentieri la pessima colazione consumata in volo qualche ora prima, mi offre un piatto di farinha e frito do vaqueiro, in pratica carne di bue fritta e conservata nel suo stesso grasso.
Mangio tutto senza battere ciglio.
Non mi sembra ancora vero di essere alla fine riuscito a incontrare Jovêncio Amador, lottatore caboclo.
L'Isola di Marajò ha dato i natali più di trecento anni fa a uno stile di lotta molto simile alla nostra grecoromana. Forse ispirati dai combattimenti dei bufali, gli indios della penisola hanno iniziato a misurarsi "de pés casados". Uno di fronte all'altro con l'unico obiettivo di schiantare l'avversario al suolo di schiena. L'arena era ed è rimasta ancora oggi un semplice quadrato di terra battuta di otto metri per lato.
Jovêncio è nato il 30 ottobre del 1906 sull'isola, nella Fazenda Tucumã. Ha messo al mondo sette figli maschi e tre femmine. Ha sempre fatto il contadino, il mandriano. E' sempre stato il mezzano del proprietario della fazenda dove tutta la sua famiglia ha sempre lavorato.
Gli chiedo subito se ha paura della morte. Mi risponde fermo: "Quando Dio avrà bisogno, dovrò andare pure io. Ad oggi non ho conosciuto tristezza. Il dolore più forte è stato quando mia moglie si è ammalata ed è morta. Ma come il tempo è passato così il dolore è sparito e alla fine ho trovato un'altra donna."
Gli chiedo subito se ha paura della morte. Mi risponde fermo: "Quando Dio avrà bisogno, dovrò andare pure io. Ad oggi non ho conosciuto tristezza. Il dolore più forte è stato quando mia moglie si è ammalata ed è morta. Ma come il tempo è passato così il dolore è sparito e alla fine ho trovato un'altra donna."
Gli chiedo di spiegarmi come ha fatto ad arrivare alla sua età così forte. In salute. "Mangio bene e, soprattutto, dormo bene. Mangio carne di bufalo e farina fin da quando sono bambino. Quando ero giovane passava giorni cacciando bufali. Li inseguivo fino in acqua. Quando ero giovane ero molto pericoloso."
Appena gli chiedo se la lotta marajoara si praticasse solo in occasione delle feste religiose, Jovêncio scoppia a ridere. "Tutti lottavano nella fazenda. E nessuno voleva perdere. Si lottava tutti i giorni. Sempre."
Appena gli chiedo se la lotta marajoara si praticasse solo in occasione delle feste religiose, Jovêncio scoppia a ridere. "Tutti lottavano nella fazenda. E nessuno voleva perdere. Si lottava tutti i giorni. Sempre."
Nel silenzio del calore dell'Isola di Marajò si sente solo il mio cuore accelerare. Il posto, a parte noi due, sembra disabitato. Sono curioso di sapere come passano le sue giornate e, nel momento stesso in cui lo penso, Jovêncio attacca. "Mi sveglio tutte le mattine alle quattro e alle sette sono già sulla mia amaca. Mi lavo quattro volte al giorno. Tutti i giorni. E solo con acqua fredda. Senza asciugarmi. Mai. Alle volte sogno di montare a cavallo."
Prima di andarmene gli chiedo solo un ultimo favore, di lanciare il grido dei mandriani di quelle parti. Il grido che serviva a raccogliere il bestiame sparpagliato a centinaia di metri di distanza. Tra prati verdi e specchi d'acqua salmastra.
Jovêncio si alza. Con passo fermo e deciso va verso il patio della fazenda. Si ferma. Sembra il tronco di un ulivo. Torto. Segnato in volto da cicatrici e rughe. Porta le mani agli angoli della bocca mentre prende fiato.
Sento il cuore in gola.
Lo abbraccio e gli prometto che tornerò a trovarlo.