domenica 20 febbraio 2011

Pilsner a colazione.

Lascio Milano avvolta dal primo tepore primaverile e in poco più di un paio d'ore mi ritrovo al centro di una spedizione nell'Artico. Freddo pungente. La Polonia mi da il benvenuto con una sostanziosa bufera di neve. All'aeroporto mi accoglie la solita frotta di tassisti abusivi che mi offrono la certezza di un trasferimento sicuro in cambio di qualche złoty polacco in più. Non si sa come ma arrivo all'Ibis Centrum sano e salvo. Abbandonare l'impianto di riscaldamento del mini van è una tortura. Mi guardo intorno e vedo che la truppa risponde ai comandi. In pochi minuti siamo tutti operativi al banco della reception. Ci accoglie una sorta di Heidi - quella del romanzo di Johanna Spyri - bionda vestita da hostess. Al peso avrebbe fatto oscillare l'ago tra i settanta e i settantacinque chili. Patteggiare per una stanza con tre letti sembra un'impresa ma, alla fine di una trattativa durata mezz'ora, riesco a farmi dare una branda che avrebbe fatto schifo anche a un prigioniero di Guantánamo. La mia stanza in meno di due ore si trasforma nel suk di Marrakech. Da un lato la mia cuccia e dall'altro un letto matrimoniale. Ogni superficie piana è rivestita di mutande e calze usate, pc, telecomandi e caricatori vari, kimono, libri e qualche resto di cibo ancora commestibile.
Dopo un pisolino ristoratore di un paio d'ore mi ritrovo seduto al tavolo per cena in uno di quei locali tipicamente polacchi - lascio al lettore la libertà di interpretare quel "tipicamente polacchi" - con Davide, Nicola, Daniele e Luc. Würstel, crauti, stinco di maiale, patate, bietole e litri di birra sono tutto quello che ha da offrire la locanda.
Mi sveglio il sabato alle otto del mattino. Non mangio nulla perchè il mio stomaco sta ancora finendo di lavorare sulla cena della sera prima. Fuori sembra che faccia meno freddo del giorno prima. Un raggio di sole scalda la stanza invasa di fumi tossici dovuti alle esalazioni notturne. Aglio, cipolla, insaccati e birra non hanno risparmiato nessuno. Raccatto il mio kimono e mi metto in marcia.
Arrivo al palazzetto.
E' già tutto pronto e l'organizzazione sembra impeccabile. Quattro materassine. Area per il riscaldamento presa d'assalto. Fermento per le prime chiamate. Gli unici che sembrano turisti sono gli arbitri. Vestiti di nero come becchini e bianchi in volto come fantasmi, pascolano per le aree di gara senza una meta precisa come un gregge di pecore. Forse sono loro l'anello debole del campionato che per il resto sembra perfetto.
Dopo otto ore della stessa litania - tonfi, strilla e annunci al microfono - finalmente riprendo la via dell'Ibis Centrum con tutto il resto del contingente "milanimalesco" al seguito. Arrivato in camera mi butto sotto l'acqua calda della doccia e il bagno, nonostante assomigli al vano di comando dell'Apollo 13 - plastica e luci accese dappertutto - sembra il posto più bello e confortevole che abbia visto da quando sono atterrato.
Torno con gli altri nello stesso pub-bar-ristorante-locanda della sera prima. Mi scolo un litro di ottima birra chiara tutta d'un fiato e mi preparo a banchettare come un guerriero d'altri tempi.
Il sonno mi prende come un morbo appena mi sdraio nella cuccia due ore dopo. Mi sveglio la mattina della domenica a pezzi. Il corpo è immobile e la testa pulsa come una ferita infetta. Gli altri dormono tutti. Tra grugniti e imprecazioni di ogni genere, al buio, trovo il bagno. Mi guardo allo specchio e, nonostante la soddisfazione della medaglia al collo, mi chiedo: "Ma chi me l'ha fatto fare?!".