domenica 26 settembre 2010

L'emigrante. - EPILOGO

Ho trentadue anni. Sono passato per le scuole elementari, quelle medie, un buon liceo scientifico e ho concluso il tutto al Politecnico di Milano. Ho un buon lavoro, una famiglia e sono sereno. Mi piace starmene, di tanto in tanto, due giorni fuori casa, mangiare al ristorante un'insalata asfittica da trenta franchi, dormire in una scatola di plastica al terzo piano di un hotel mediocre e spendere un centinaio di euro per fare la pantomima di Kurosawa in Sugata Sanshiro. Quelli passati così sono giorni epici, che la memoria, nemmeno invecchiando, avrà modo di cancellare dai ricordi più belli.
Gli amici, la fatica, le risate.
La maggior parte dei miei compagni di viaggio risparmia tutto l'anno lesinando ogni centesimo per poter rompere il salvadanaio a fine stagione e permettersi una trasferta all'altro capo del pianeta Terra.
Grazie al cielo la situazione del jiu-jitsu mondiale è migliorata. E di molto. Fino al 2006 i campionati mondiali si tenevano al Tijuca Tennis Club, uno dei tanti prefabbricati decrepiti di Rio invaso per un weekend dal puzzo di sudore, canfora e pão de queijo. Lottatori che nell'arco di una giornata svestivano il kimono per diventare massaggiatori sugli spalti o ambulanti tra Conde de Bomfin e Heitor Beltrão. Oggi, la mecca dei fedeli dell'arte suave sta a Long Beach in California. Fuori dallo stadio i lay BoyZ, i Chicos MaloS, i MalDitoS, gli Stoners, i Tiny Locos e i DuKeS si divertono a impiastrare i muri e a tirarsi qualche colpo di rivoltella a tradimento e dentro per quattro, cinque giorni all'anno si danno battaglia, vestiti solo di una cintura, una giacca e un pantalone di cotone grezzo, migliaia di intrepidi da tutto il mondo.
Si è fatto di tutto e ancora oggi si lavora a pieno regime per dare dignità ad uno sport bellissimo e nobile come il jiu-jitsu brasiliano.
Iscrizioni online, DVD e registrazioni di una fattura ormai professionale, buona copertura mediatica, precisione e puntualità nello svolgimento dei tornei.
Arrivato a questo punto della mia riflessione, però, mi fermo e mi faccio qualche domanda.
  • Salire sul tatami, combattere e, nella migliore delle ipotesi, vincere vale gli ottanta, cento euro che ogni atleta deve cacciare di tasca sua?
  • A livello locale, ovvero nel caleidoscopio dei diversi tornei nazionali, gli standard qualitativi restano gli stessi o ogni organizzatore si arroga il diritto di gestire la questione a modo suo?
  • Sarà possibile, mi auguro in un futuro molto prossimo, ridurre o addirittura abolire la tassa ingiusta dell'iscrizione?
    Per trovare le risposte, ripasso la mia storia a spanne. Cerco spunti.
    Ho iniziato a fare judo nel 1983. Il primo campionato, sempre di judo, ai Giochi della Gioventù nella stagione 1989/1990. In pratica, preistoria. Vado avanti così fino al 1999. Vedo i primi VHS - all'epoca non esistevano ancora i dvd - scoloriti. Vovchanchyn, Mark Kerr, Josè Pelè Landì, Johil de Oliveira e un Wanderlei ancora dalle sembianze umane sono i protagonisti. Conosco Federico Tisi. Inizio a fare jiu-jitsu. Nel 2009 organizzo il mio primo campionato qui a Milano.
    Ce n'erano già stati diversi in Italia. Alcuni gestiti in modo impeccabile, altri meno.
    Col MILANO CHALLENGE mi sono proposto di dare dignità e visibilità agli atleti, la categoria più povera dello sport. Spesso giovani e con pochi spiccioli da spendere.
    Primo campionato a gestire le iscrizioni online. Primo ad avere un cronogramma dettagliato.
    Tolto un ritardo di mezz'ora il campionato è filato liscio dall'inizio alla fine. Circa duecentocinquanta atleti iscritti. Personale competente e arbitri tutti formati da Alvaro Mansur, direttore tecnico dei giudici al Mundial. Regolamento ufficiale della Federazione Internazionale di Jiu-Jitsu Brasiliano tradotto in italiano sul sito della manifestazione. Per tutti. Software per la scelta e selezione dei gironi. Niente maneggi o aiutini al compagno di banco. Nessun titolo mondiale, europeo, intercontinentale o altro in palio. Semplicemente un buon torneo secondo le regole ufficiali del jiu-jitsu brasiliano.
    Nessun atleta, secondo il mio modesto avviso, dovrebbe pagare più di una quota minima per partecipare a una manifestazione sportiva. Purtroppo però le strutture federative di supporto sono carenti e l'incognita che l'organizzatore si trova ad affrontare lo obbliga ad alzare questa orribile gabella. Niente, però, può giustificare un costo così alto da arrivare a toccare i prezzi proposti oggi. Scrivo una settimana dopo aver partecipato a un campionato in cui, per ottanta euro d'iscrizione, manco sono riuscito a sapere con chi e quando avrei lottato dodici ore dopo. In cui, nonostante le iscrizioni fossero chiuse da tempo, bastava essere amico di Tizio, Caio o Sempronio per presentarsi lì la mattina, cambiarsi e lottare. Tutto questo forse solo perchè all'intestazione del torneo si è aggiunto l'aggettivo "europeo"!!
    Incredibile!!
    Carlinhos Gracie si è comprato due ville in Brasile e credo se ne stia facendo - se non se l'è già fatta! - una in California con i soldi delle centinaia di migliaia di lottatori che per fregiarsi di un titolo e inseguire un sogno sono disposti a vuotarsi le tasche, ma almeno lui restituisce precisione e competenza. Ma gli altri?! E' sempre così?! Purtroppo no. Ne ho - abbiamo, per chi c'era - avuto la conferma la settimana scorsa.
    Mi chiedo perchè, anzichè tassare gli atleti, non si provano a spremere di più le tasche degli sponsor?! Boh..
    Mi piacerebbe poter fare qualcosa per quei ragazzi che hanno fatto le vacanze a Ostia o sul Ticino per andare a combattere oltre oceano..
    ..e ce ne sono!!