La formula era nuova. Venti minuti di lotta senza interruzioni, senza punti, senza penalità. Insomma, regole ridotte al minimo sindacale e vittoria solo per sottomissione. In caso contrario, un pareggio che non avrebbe accontentato nessuno.
A qualche settimana di distanza ripenso a quella notte insonne e alla lezione che mi ha dato.
In breve:
- Fare l’internauta nottambulo non è pane per i miei denti. Ricordo ancora che alle otto del mattino seguente, in pratica approssimativamente tre ore dopo la fine dell’ultimo incontro, mentre vestivo la giacca umida del kimono circondato dalla peggiore nebbia padana, ripetevo tra me e me come fosse un mantra: “Ma chi me l’ha fatto fare?” Ripensando, però, a quegli ultimi due minuti dello scontro imperdibile (VIDEO) tra Buchecha e Roger trovo pace e inizio a fare lezione.
- L’evento, a mio avviso, è stato molto bello. Dal vivo, sarebbe stato infinitamente meglio. Forse se fosse stato promosso con un più largo anticipo avrebbe potuto mietere più vittime. Insomma, avere più successo in termini di pubblico. Il Viejas Arena era sostanzialmente vuoto.
- Ho pagato quasi venti euro per vedere una manciata di scontri – incontri, a quell’ora di notte, mi fa venire in mente tutt’altro genere di programma – tra titani. Questo fa di me un cliente, uno spettatore, un appassionato e, di conseguenza, un “tecnico da bar”. Ho pagato per vedere delle evoluzioni che altrimenti non sarei stato capace nemmeno di immaginare. Ho pagato per restare a bocca aperta davanti a una posizione banale, una di quelle che anche una cintura bianca appena arrivata in palestra conosce, eseguita con precisione certosina e condita dal fluido magico e invisibile che solo un numero 10 della lotta sa dove andare a pescare. Ho pagato per vedere degli atleti combattere, fare un passo alla volta fino a costringere l’avversario alla resa. Non ho pagato per vedere dei lottatori ammiccare alle telecamere, gesticolare come calciatori o sopravvivere come ratti.
- Il momento peggiore della nottata, quello che ha messo a dura prova la mia voglia di restare sveglio fino alla fine, è stato l’incontro tra André Galvão e Ryron Gracie. Il primo non credo abbia bisogno di molte presentazioni. Un talento che è nato alla TT con Tererè e Telles, appunto, e finito in quella fucina di campioni che oggi é la Atos di Ramon Lemos. Un lottatore completo. Da sopra, da sotto, con e senza kimono. Tecnico e forte. Non le ho contate ma credo che ad oggi vanti già più di un centinaio di medaglie nelle competizioni più importanti. Una carriera iniziata da cintura viola che continua da cintura nera. Il secondo ha dalla sua, invece, più che un passato, un passato remoto illustre. Il padre, Rorion, primogenito di Hélio, è stato il primo tra i suoi fratelli a emigrare negli Stati Uniti. E’ a lui, a John Milius e Art Davie che si deve la nascita dell’Ultimate Fighting Championship, l’evento che ha reso popolare il jiu-jitsu in tutto il mondo. Oggi, sempre il padre, a Torrance, è a capo della Gracie Academy, mausoleo dell’arte suave nel senso più tradizionale del termine. Di Ryron, a parte qualche comparsata al Pan American Submission Grappling Tournament o all’Annual International Gracie Jiu-Jitsu Open, non se n’è mai sentito manco parlare. Mai visto a un torneo dell’IBJJF o al più recente circuito dell’Abu Dhabi Pro. Niente. L’esito del match è scontato. Da una parte la voglia di misurarsi, di battersi e di vincere. Dall’altra, l’ostinazione a difendersi ad ogni costo. Il verdetto è un pareggio che da più prestigio alla macchina commerciale targata Gracie che non – mi viene da dire “povero” – André Galvão, colpevole solo di essere stato l’unico a voler combattere. A questo punto, si potrebbe aprire una parentesi sul rapporto tra i campionati di jiu-jitsu – per intenderci quelli che funzionano col regolamento dell’IBJJF – e il sistema di difesa personale dei fratelli Carlos, Oswaldo, Gastão, George e Hélio Gracie. Ryron, nipote di Hélio, alla fine dei venti minuti di lotta guarda la sua torcida soddisfatto e festeggia ricordando al mondo intero che il jiu-jitsu è “aspettare il momento giusto”. Da una parte non posso che dargli ragione, il timing e la pazienza non possono fare altro che enfatizzare le abilità tecniche, dall’altra però non credo che “il momento giusto” sia il colpo di fulmine che aspetta un adolescente dietro ogni angolo, “il momento giusto” bisogna costruirselo, un passo alla volta, combattendo con tenacia con l’obiettivo, prima, di controllare il corpo dell’avversario, secondo, di obbligarlo alla resa. Non credo che il nonno Hélio sarebbe felice di sentir dire a suo nipote che quello è il jiu-jitsu dei Gracie. Per quanto mi riguarda, quello è tutto fuorché battersi. E’ sopravvivere finché non arrivano i rinforzi. Punto e basta. La critica poi, banale e scontata, al jiu-jitsu sportivo riassunta in un semplice “noi non facciamo jiu-jitsu per fare dei punti” si sgretola davanti al fatto che il valore educativo dello sport è fuori discussione e che misurarsi in un contesto sicuro, tutelati da regole e arbitri, è sicuramente il primo passo per una comprensione del senso più generale dell’arte suave. Basti pensare che la prima stesura del regolamento del jiu-jitsu sportivo fu proprio di Hélio e Carlos in occasione della nascita della Federazione di Jiu-Jitsu dello Stato di Guanabara ormai diversi decenni fa. Ad ogni modo, l'analisi migliore - o meglio quella che mi trova più d'accordo - sui venti minuti più noiosi della storia del jiu-jitsu brasiliano é di Marcelo Garcia (VIDEO) che nel suo MGinAction non fa altro che dare una spiegazione "scientifica" di quanto possa essere accaduto durante l'incontro peggiore del primo METAMORIS PRO.